“Liberator” FP-45

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Dalla caduta della Francia di fronte alle armate tedesche nel 1940, fino alla fine della guerra, gli Alleati occidentali si trovarono di fronte a un problema.

Con il continente saldamente in mano all’Asse, come si può cercare di rifornire le varie formazioni di partigiani di armi e munizioni in maniera affidabile ed economica?

Una serie di armi pre-esistenti sembravano adatte allo scopo e vennero quindi selezionate, dall’essenziale Sten britannico al molto più complesso e costoso Thompson americano, gli Alleati fecero arrivare in Italia, e un pò in tutto il continente, armi di ogni tipo.

Un’arma però, molto meglio di tutte le altre, portò il concetto di arma economica e di rapida produzione sino all’estremo, la Liberator FP-45.

Idea e progettazione

L’idea per un’arma di facilissima produzione, che costasse poco e che fosse possibile paracadutare in massa dietro le linee nemiche viene fatta risalire al 1942, quando di un attaché militare polacco a Washington D.C. (Colonnello Włodzimierz Onacewicz) la propose.

Una riproduzione fedele della FP-45 liberator

I vertici logistici e amministrativi americani (specificamente lo US Army Joint Psychological Warfare Committee, il comitato dell’esercito statunitense per la guerra psicologica.) presero a cuore l’idea e dopo un paio di mesi il design finale della pistola venne creato da George Hyde, ingegnere e talentuoso designer di armi che al tempo lavorava presso la General Motors.

Hyde, che poi disegnerà anche il ben più famoso mitra M3 “Grease gun”, creò una pistola estremamente semplice, addirittura grossolana in certi aspetti, ma che svolgeva il suo compito.

La Liberator era stata creata in calibro .45, per sfruttare una munizione comune e abbastanza potente, e anche per controbilanciare il fatto che l’arma poteva sparare un solo colpo prima di essere ricaricata.

Riguardo la canna, è cortissima e soprattutto è liscia, riducendo la portata effettiva dell’arma poco oltre i 4 o 5 metri, 8 al massimo, prima che la pallottola cominci a ruotare su se stessa fuori controllo.

Ci si potrebbe chiedere l’utilità di avere un’arma con una portata tanto minuscola, ma l’idea è quella di fornire uno strumento di assassinio più che un’arma da usare di per se.

Praticamente si pensava che l’arma sarebbe stata usata per uccidere un soldato nemico, magari sparando a bruciapelo, per poi rubare le armi del soldato stesso.

Il caricamento, vista la semplicità estrema della Liberator, avviene manualmente spostando l’intera sezione posteriore della pistola di lato, e l’espulsione del bossolo va effettuata tramite un bastoncino di legno che viene fornito nella confezione.

Nemmeno fosse un revolver del 1850.

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Meccanicamente, non c’è nient’altro, niente sicura o cose giudicate superflue come estrattori o leve per smontare la pistola.

Non c’è nemmeno un caricatore!

Semplicemente la parte inferiore dell’impugnatura è cava, e può ospitare una decina di cartucce.

Nella confezione dell’arma che venne paracadutata in Europa, per superare le barriere linguistiche, vennero incluse delle istruzioni sotto forma di “fumetti”, in cui si mostravano tutte le fasi della ricarica e del funzionamento interno.

Oltre alle istruzioni, venivano fornite anche dieci cartucce calibro .45 e il bastoncino di legno per estrarre i bossoli.

Produzione e impiego.

Il pacchetto completo in cui la LIberator veniva inviata, comprendente le 10 munizioni, le istruzioni e il bastoncino per estrarre i bossoli.

Della Liberator vennero prodotti esattamente un milione di esemplari, nello spazio di 11 settimane, lavorando sette giorni su sette, 24 ore al giorno, con una forza lavoro di 300 operai.

Durante la produzione, l’arma acquisì le lettere FP nel suo nome, le quali stavano per “flare gun”, pistola lanciarazzi, in un tentativo di nasconderne la natura a eventuali spie nemiche.

Facendo due conti riguardo gli esemplari prodotti e il meccanismo dell’arma viene fuori un dato curioso.

La Liberator ha bisogno di circa 10 secondi, anche 15, per essere ricaricata in condizioni normali, mentre per produrla ne servono meno di 7.

Quindi la Liberator è l’unica arma che richiede più tempo per essere ricaricata rispetto a quanto tempo serve per produrla nuova.

Ogni pistola fu provata almeno una volta, e una serie di problemi divennero drammaticamente chiari.

Dopo circa una dozzina di colpi l’arma tendeva a spaccarsi sulle saldature, e fu determinato che nessuna pistola poteva sparare 50 colpi in maniera sicura senza esplodere.

Un operaio addirittura si sparò nello stomaco e morì, per via della mancanza di sicura dell’arma.

Il costo di una Liberator, pacchetto con munizioni, istruzioni e bastoncino inclusi era di appena due dollari e 10 centesimi.

A livello operativo, anche per via dei problemi emersi in fase di produzione, l’arma non fu usata massicciamente come era inizialmente previsto.

Del mezzo milione che furono inviate in Gran Bretagna, solo 25.000 furono designate per essere usate solo in caso di emergenza, a causa del fatto che Eisenhower mostrò grande perplessità riguardo il loro impiego al fronte.

La stessa sorte toccò alle circa centomila pistole inviate in Cina e nel Pacifico, a causa dei veti incrociati dei comandanti dei rispettivi teatri (il Generale Stillwell e il Generale MacArthur rispettivamente).

Il numero effettivo di Liberator usate in combattimento è ignoto e l’unica nota sicura sul loro impiego riguarda il fatto che l’OSS americano, precursore della CIA, ne fornì alcune (non si sa quante) ai partigiani greci, pochissime altre vennero distribuite nelle Filippine.

Alla fine, la larghissima maggioranza delle Liberator rimaste vennero fuse per recuperarne il metallo.

Una fine ingloriosa a dir poco, per un’arma che fu addirittura ritenuta in grado di terrorizzare l’occupante tedesco in tutta Europa, tanto da essere approvata dallo US Army Joint Psychological Warfare Committee.

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